Inaugurazione: sabato 14 ottobre, ore 18.00
14 ottobre – 18 novembre 2017
Via Moroni16/a – Bergamo
+39 3472415297
info@viamoronisedici.it
www.viamoronisedici.it
presentazione di Claudio Rota
Composizioni a B.
“Ho pensato, addirittura sperato, che la mia arte fosse un grido, ma al contrario si è dimostrata un fiore”
Franz West
Dopo l’Accademia di Brera, a Milano, per Tiziano Finazzi la questione artistica si pose nei termini di elaborare un linguaggio personale, sentito, in grado di superare il linguaggio astratto-concettuale delle neoavanguardie, anche attraverso un ritorno a materiali e tecniche pittoriche tradizionali.
La dimensione culturale dell’arte povera, o di certo sperimentalismo, non riusciva che parzialmente a soddisfare una poetica che affondava le sue radici più in movimenti come “Corrente” piuttosto che negli ”ismi” di inizio ‘900.
Il clima culturale in cui Finazzi si formò era quello radicale degli anni ‘70 in cui le avanguardie artistiche si muovevano entro una cornice drammatica, segnata da un’ “angoscia sociale” senza precedenti a determinare la quale concorreva un assetto istituzionale, accademico e religioso che non riusciva a dare risposte adeguate alla complessità della trasformazione in atto: angoscia sociale che con l’assassinio di Aldo Moro raggiunse il suo culmine.
Mentre a Milano Finazzi completava la sua formazione, artisticamente a Bergamo si aprivano diversi scenari: nel 1977 si inaugurava il “monumento al partigiano” di Giacomo Manzù che, se rappresentava in modo tragico le efferatezze dello scontro civile, passato e presente, significò anche una riconciliazione poetica e personale di Manzù con la città natale, che riaccolse in modo spettacolare, in pieno centro cittadino, tra Porta Nuova e il Sentierone, quella tradizione a cavallo tra arte, ornato e artigianato di cui per esempio, Attilio Nani era un altro degli esponenti e che a Bergamo ha prodotto esempi di opere davvero importanti.
Evidentemente questa dimensione artistica locale, con cui Finazzi fisicamente conviveva, fu quella contro cui si scagliarono le avanguardie degli anni ’70-80 e il clima era talmente teso che ancora oggi, nel 2017, fanno dire ad uno dei protagonisti che “Trento Longaretti favorendo questo tipo di arte (l’Informale) all’Accademia Carrara, dove si sono formati tanti grandi artisti, finisce col creare una frattura importante. L’informalismo rappresenta un declino artistico, una mancanza di valori etici e una decadenza artistica che a lungo andare è anche morale”.
La tradizione pittorica a Bergamo reclamava la propria parte e l’arte concettuale penetrò solo in parte ma altro succedeva: in città si andava prepotentemente affermando un modello culturale di derivazione Testoriana che, oltre all’arte povera, al minimalismo, all’arte ambientale, alla Pop At e molto altro, si opponeva anche all’ internazionalizzazione tipica della Transavanguardia.
Ma cosa spingeva gli artisti bergamaschi verso l’opera di Bacon? Anzitutto si sentirono legittimati a dipingere in un periodo storico in cui la pittura, in senso stretto, cedeva spazio alle arti concettuali; Gianfranco Bonetti, uno dei più importanti epigoni a Bergamo di Bacon ebbe a dire che, dopo l’affermazione perentoria di Giulio Carlo Argan “l’arte è morta”, smise di dipingere fino a quando l’incontro con Bacon non gli ridiede lo spazio intellettuale per operare. Gli artisti locali, pregni di una tradizione pittorica secolare, trovarono nel lavoro di Bacon la possibilità teorica e pratica di poter fare pittura contemporanea. Bacon usava i pennelli, tirava la tela, usava le cornici, dipingeva il corpo umano, ritraeva, ma dipingeva in un linguaggio eccezionalmente nuovo, senza alcun senso di colpa verso altre espressioni “più moderne” e allargava la riflessione sulla pittura figurativa oltre i confini fino ad allora conosciuti. Questo aspetto per molti pittori locali rappresentò la chiave di volta per legittimare, in termini alti ed anche finalmente laici, il loro lavoro.
Tiziano Finazzi in questo periodo guardò invece alla Transavanguardia, movimento verso cui si sentiva più affine, per i temi, per i colori, direi certamente per una predisposizione comune verso la vita, intesa come luogo entro cui dovere stare senza il portato tragico dell’artista inglese e del critico di Novate Milanese che tanto lo amava.
E di conseguenza per Finazzi la conoscenza di Sandro Chia, quello tra gli autori presentati da Bonito Oliva, con cui il legame artistico-ideale pare più vicino.
E’ utile ricordare questa affermazione programmatica sulla Transavangurdia: ”… questi artisti assumono la pratica pittorica come un movimento affermativo, come un gesto non più di difesa ma di penetrazione attiva, diurna e fluidificante”.
( Achille Bonito Oliva nell’intervista al Segno, 13 ottobre 1979)
Militanza quindi per Finazzi ma su basi completamente diverse dalla scuola inglese o dalle posizioni di Germano Celant, mentre non viene coinvolto, né si lascia coinvolgere dal mondo accademico bergamasco.
Ripercorrendo gli anni della formazione di Finazzi possiamo comprendere come la sua poetica si faccia più intelligibile e coerente: a Bacon e Freud ( per altro meno conosciuto e osservato in quegli anni rispetto all’amico-rivale), Tiziano preferisce David Hockney e Richard Diebenkorn; ad Alighiero Boetti preferisce Mario Schifano e alla poetica di Manzù certo preferisce quella di Filippo De Pisis.
Gli anni ’80 del xx secolo si aprirono a Bergamo con la mostra “Deserto, il cui titolo esatto era: “Deserto: aspetti della condizione umana attraverso l’arte”, 1981. Fu quella un’esposizione che proponeva a Bergamo, in una sede prestigiosa come l’ex chiesa di Sant’Agostino, una mostra di respiro nazionale; e fu per anni, l’unica mostra davvero importante sugli anni ‘70 in città.
Vi dominava una certa estetica in bianco e nero, in grigio, eticamente manichea, austera, dove il colore veniva guardato con sospetto, quasi fosse frivolo, a fronte dell’impegno sociale di tanti artisti politicamente impegnati ( ma quanta differenza con Mario Schifano che colora di grigio il logo della Coca Cola).
Qui iniziò la prima, vera frattura, la vera divergenza che porta Finazzi ad una personale e compiuta poetica: la certezza che il colore non poteva né doveva essere sacrificato in virtù dell’inusitato primato del Contenuto o della Storia; il colore per Finazzi apparve come la varietà stessa del mondo e dell’universo.
Undici anni più tardi, nel 1992 Finazzi presentò. sempre nella ex chiesa di Sant’Agostino, un’importante mostra intitolata “Miraggi” ( l’esposizione faceva parte di un trittico espositivo ed erano presenti, oltre a Finazzi, Claudio Troncone e Domenico Pievani, a cura del critico Andrea Del Guercio) il cui titolo chiaramente si riallacciava alla mostra precedente. L’esposizione prevedeva dei “quadri” ma, sia stato per l’ambiente estremamente complesso, enorme, simmetricamente disposto per cappelle, con una grande abside, un soffitto vertiginosamente alto; oppure perché si era tutti concettuali, Finazzi si propose con modalità più vicine ad un’ installazione che ad una vera e propria rassegna e produsse un filmato, realizzato personalmente, corredato da una colonna di musica contemporanea. A distanza di anni questo film, andando forse oltre le intenzioni, appare chiaramente come parte integrante dell’esposizione.
Finazzi ha sempre mantenuto un rapporto quotidiano con la Storia dell’Arte, relazione certamente professionale ma che, a tratti, rivela un aspetto della sua personalità: osservare con umana simpatia il lavoro degli altri, come se “la strana gioia di vivere”, che informa il suo operare, si allargasse verso chi è impiegato nel campo dell’arte.
Ma la Storia dell’Arte, che confluisce senza reminiscenze esplicite nei dipinti e nelle carte, è la tela dei quadri di Finazzi, il suo vero confronto, in un modo di procedere volutamente non postmoderno.
L’artista non cita mai direttamente né fa allusioni ai modelli, ma quanto dell’0pera di Osvaldo Licini possiamo ascoltare nel suo lavoro, quanto dell’esegesi universale di Klee è presente?
Finazzi conduce una raffinatissima ricerca della matrice lirica in pittura che, da alcuni colori degli autori di “Corrente”, lo porta fino ai nostri contemporanei Piotr Uklansky, Peter Doig, Billy Childish e il grande Wilhelm Sasnal.
Finazzi certamente trascrive la Storia dell’Arte come fosse un vissuto personale ed è in questo movimento che le opere si alleggeriscono: rifiutando il citazionismo.
Si trascina la Storia dell’Arte in direzione della vita.
Probabilmente i suoi quadri hanno un’ambizione metafisica, apparentemente non intaccata dalla storia, una pittura verrebbe da dire francescana, rivolta ad una “piccola eternità”.
I titoli delle opere sono le uniche parole di Potere per agire nella storia del colore, del mondo a sé che i dipinti circoscrivono: quadri che si fanno in alcuni momenti sensuali con l’odore della pittura, l’ambiguità delle tele in velluto rosso o blu, per una certa presenza musicale di derivazione rock and roll.
Ricchissimo il movimento emotivo del lavoro, in pendolo tra la meraviglia di vivere, o meglio di potere osservare le stelle, e una preghiera rivolta verso i cieli; mobili sono la variabilità del segno e della tecnica, la temperatura e l’intonazione, sempre in equilibrio fra lo stupore e la metafisica fatale.
Non si tratta mai di pittura gestuale, per questo i lavori non sono mai vasti né troppo estesi; è necessario mantenere il controllo, la giusta sintassi, l’abilità fino- motoria.
La pittura di Finazzi, (fortunatamente non è solo, altri autori fanno altrettanto e, per restare in area bergamasca, mi piace pensare a Giangi Pezzotti, un altro artista che ha appreso parecchio dalla Transavanguardia), è l’isola, l’aiuola a cui approda l’emozione; è la corruzione del sapere fenomenico finalmente reindirizzato verso più ampie orbite e disegni.
Viene proposta ora in via Moroni quella che potremmo chiamare coerentemente un’installazione, composta da un largo lavoro a olio su velluto rosso, diversi lavori su carta ed una fotografia che si pone come precisa dichiarazione di vita e di poetica.
Le opere sono state preparate e allestite per una visione unitaria ma evidentemente conservano la loro autonomia, la possibilità di un frazionamento. I riferimenti più pertinenti per questa installazione sono la “Venere degli stracci” e “l’Etrusco” di Michelangelo Pistoletto, sia pure deprivata dei riferimenti alla classicità preferendo un confronto tutto interno con gli spettatori odierni, senza riferimenti temporali o mitologici.
L’architettura dell’insieme è sostenuta da linee musicali di una certa evanescenza e da un ritmo affidato certamente al caso, però nella precisione di segno degli «appunti». E nelle carte sono ben presenti i riferimenti ai disegni di Osvaldo Licini.
Anche per questo lo spazio proposto è ancora una volta quello lirico, dove la vibrazione del sentimento modifica la percezione sociale e materiale del mondo, in una proposta che sarebbe certamente piaciuta a Sandro Penna.
P.S.
Conobbi Tiziano trentacinque anni quando lui era poco più di un ragazzo ed io poco più di un bambino; miracolosamente amavamo la pittura e questo amore ci rese amici; la pittura non ci avrebbe più abbandonato, determinando buona parte della sua e della mia esistenza.
Bergamo luglio 2017 Claudio Rota