INTERVISTA A VEIT LAURENT KURZ
Laura Baffi
Laura Baffi – Sei stato nominato vincitore della 42a edizione del Premio Matteo Olivero, il concorso di arte contemporanea co-gestito da The Blank che ti vedrà protagonista dell’esposizione presso Casa Cavassa a Saluzzo. La tua personale sarebbe dovuta inaugurare il 24 aprile ma, come tanti altri, l’evento è stato rinviato. Approfitto dunque di questa intervista per chiederti di presentare sinteticamente la tua ricerca a chi ancora non ti conosce.
Veit Laurent Kurz – La mia pratica artistica si concentra su installazioni che consistono principalmente in dipinti, disegni e sculture. Negli ultimi anni ho integrato al mio metodo di ricerca personale anche video e scrittura, entrati a far parte delle mie installazioni. Questi due medium si configurano come un “tracciamento”: registrano i miei pensieri lungo una pratica di studio più orientata agli oggetti.
La mia speranza è quella di catturare elementi appartenenti al conscio e al subconscio. Il mio interesse è rivolto a fenomeni archeologici e biologici, in particolare ai vulcani, di cui mi appassionai quando visitai la città di Pompei. Il destino di quella città segnata dal Vesuvio, così come il pericolo dovuto ai Campi Flegrei, sotto Napoli, hanno intensamente attirato la mia attenzione.
Altro nucleo della mia ricerca, questa volta dettato da un trauma personale, è la concezione delle potenze nucleari all’interno della nostra civiltà, e il loro collegamento a incidenti del passato più recente. I vulcani e le le centrali nucleari sembrano avere delle similarità dal punto di vista dell’integrazione geografica con la vita umana.
L’installazione che ho pensato per Saluzzo è un intreccio tra questi due siti, è la conseguenza di una ricerca scientifica e personale che fonde parole provenienti da questi due mondi, facendone un suo vocabolario.
LB – L’intento dei tuoi personaggi, correggimi se sbaglio, è quello di avere un effetto benevolo sul visitatore, in quanto “consiglieri”. Più che familiari, però, i Dilldapp ci risultano alieni. Forse il tuo intento sta proprio nello scatenare il perturbante?
VLK – La prima volta che ho incontrato i Dilldapp è stata in un libro sul carnevale che aveva le sue origini nell’Hunsrück, in Germania, una zona vicina a dove sono cresciuto. Non c’erano fotografie, né illustrazioni, ma mi piacque molto quello che lessi e, per qualche ragione, la mia mente si è impegnata nel fornire gli attributi a queste specie. Ho mantenuto il nome “Dilldapp”, ma presto le specie sono entrate a far parte della mia pratica come fossero il mio alter ego. All’interno delle installazioni, il ruolo e la funzione del Dilldapp è cambiato e continua a cambiare. Per un po’ di tempo ho sviluppato le mie installazioni in dialogo con questa creatura, e questo mi ha aiutato a compiere un cambiamento di prospettiva all’interno della mia pratica, così come ad avere un occhio per i dettagli all’interno dello sviluppo narrativo.
Dunque il Dilldapp è un consulente per il pubblico, ma anche per me stesso. Mi fa presente la responsabilità che la mia narrativa dovrebbe adottare, senza oltrepassare il confine che la porterebbe verso la pura finzione.
LB – Secondo il filosofo contemporaneo Slavoj Žižek talvolta, nonostante riconosciamo e siamo consapevoli che quello a cui stiamo assistendo – o a cui ci stiamo appellando – è un inganno, persistiamo nel considerarlo, in altre parole stiamo al gioco. Trovo che questa riflessione sia interessante se accostata alla tua pratica: conosciamo la natura immaginaria dei Dilldapp, ma questo non fa si che il nostro interesse diminuisca, anzi, lo aumenta. L’elemento naturale e quello artificiale nelle tue opere convivono, non solo materialmente, ma anche ideologicamente. In particolare, l’opera Campi Flegrei Conferenza (che realizzerai a Saluzzo) prevede la presenza di vulcani naturali e vulcani artificiali (che identifichi con le centrali nucleari). Il vulcano installato al centro della sala sarà creato con elementi reperiti online, a imitazione delle loro parvenze originali e del loro funzionamento. Dunque: credi che la finzione ti fornisca una lente d’ingrandimento con cui osservare meglio la realtà?
VLK – La finzione mi dà la possibilità di connettere elementi della realtà con le mie logiche intime. Le mie installazioni sono spesso un ibrido emerso da decisioni consce e subconsce, che si muovono tra il regno della realtà e quello della finzione. Sul livello materiale qualche volta è complicato, in particolare quando intercorre del tempo dalla realizzazione di un oggetto nel vedere cosa è organico e cosa è sintetico (come la plastica, il legno). Mi piace questa sfocatura, sia fisicamente che mentalmente, che di per sé conduce alla realtà. Più lavoro con questo metodo, più sono consapevole di star manovrando certi parametri e di star dando uno spazio effettivo al subconscio. Il termine “Metafora”, che ho introdotto alla mia mostra presso la Kunstverein di Norimberga, in qualche modo ha colto questo processo. La fusione tra realtà e finzione è contestualmente sia un modo di mostrarmi sia di nascondermi.
LB – Ti rivolgo ora delle domande un po’ più tecniche: lavori direttamente sul posto quando si tratta di costruire i tuoi scenari? Cosa decidi di togliere al momento dell’esposizione e cosa mantieni? Ti servi di assistenti per la creazione dei tuoi personaggi o sono interamente realizzati da te?
VLK – Dipende, davvero. Alcuni progetti li sviluppo ed eseguo interamente all’interno del mio studio, altri direttamente sul luogo dell’esposizione. Adottando questa modalità mi permetto una certa flessibilità e libertà di scelta sulla base del contesto dove avverrà l’installazione, i suoi dintorni e la sua storia.
Ho lavorato molto in collaborazione negli ultimi anni, in situazioni in cui spesso bisogna fare un passo indietro per ottenere un risultato migliore. Ciò mi ha portato a un’apertura e ad avere una fiducia in me stesso e nella mia pratica che non conoscevo prima.
Quindi, in generale lavoro autonomamente, ma delle volte, quando la logistica di un progetto diventa troppo impegnativa, chiedo una mano.
LB – Ritengo che questo tipo di ambientazioni si presterebbe molto alla messa in atto di una performance. Hai mai sperimentato questa pratica? Fisicamente ti sei mai inserito all’interno di una delle tue installazioni?
VLK – Ho sempre avuto un grande interesse per film e teatro, così come per i loro aspetti scenici. In particolare sono affascinato dalle produzioni di Oskar Schlemmer, Syberberg, Roger Corman e Vincent Price.
Tramite la pittura e il disegno, così come nelle installazioni, ho indagato l’idea di palcoscenico. La maniera in cui maneggio il materiale è influenzata anche dalla scenografia e dall’illusione degli oggetti di scena che appaiono entro queste narrazioni.
Ho anche impostato le mie installazioni in chiave performativa, agendo da solo o con la mia band, gli Steiketo, ma soltanto recentemente ho iniziato a collaborare con due amici che lavorano nel mondo del cinema e del teatro, in modo da trasferire mentalmente e fisicamente le idee del mio lavoro in quei medium.
LB – Il tuo lavoro indaga gli aspetti della vita sulla terra nell’era dell’Antropocene. In generale, nelle tue opere traspare un barlume di speranza nei confronti dell’umanità? Sei fiducioso o scettico rispetto agli sviluppi nell’era dell’Antropocene?
VLK – Sono riluttante nel diagnosticare uno scenario, ma penso che bisogna essere fiduciosi. La tecnologia sembra si stia sviluppando con grande velocità, aprendo più porte in varie direzioni. Questa conoscenza, insieme ad altre conquiste, non è accessibile a tutti dato che le strutture educative ed economiche non sono egualmente distribuite: ci sono grandi parti della società che sembrano non voler rinunciare ai propri comfort e alla propria routine.
Ciò che vedo rispetto alle generazioni più giovani è per certi versi una speranza: essendo scettici, sembrano essere proattivi a condurre un cambiamento. Stanno in piedi in opposizione ai loro “genitori”.
Riguardo a questi compiti vedo il mondo dell’arte come una bolla confusa tra il lusso e l’intellettualismo, e questo suo essere stagnante non in grado di apportare un cambiamento vero.
LB – Ricollegandomi alla domanda di prima, sappiamo che i Dilldapp sono sopravvissuti a catastrofi naturali e artificiali. Parlando di ciò, non posso che pensare all’emergenza dovuta al Covid-19. I Dilldapp affrontano (o affronteranno) anche questo tipo di catastrofi?
VLK – Il Dilldapp, il mio alter ego, è nato in una situazione simile a quella dovuta alla diffusione del Covid-19, o almeno così è come io interpreto la nascita. Invece che da un virus è nato dalla minaccia invisibile scatenata dal disastro nucleare di Chernobyl nel 1986, che ha portato particelle radioattive come Iodine-131 o Caesium-137 nell’area dove sono cresciuto. Durante i miei primi vent’anni mi vennero diagnosticati dei disordini ossessivo-compulsivi e una correlata disfunzione tiroidea dovuti al pensiero della contaminazione. Per tutta la mia vita avrei dovuto lavarmi le mani, gettare via oggetti ed essere in generale intimorito da quell’invisibile minaccia. Un comportamento che ho sperimentato individualmente e che ora, per via del Covid-19, è un disturbo collettivo.
Riguardo al Dilldapp, che è espressione di sconforto, non sono ancora sicuro di come si interfaccerà con queste circostanze, rendendole parti integranti della sua esistenza narrativa.
LB – Immagineresti le tue opere non come presenze fisiche ed effettive, ma come avatar in grado di palesarsi soltanto attraverso l’uso di strumenti specifici, per esempio tramite un’app?
VLK – Mi è capitato di pensarlo, ma a volte sento che le mie installazioni già varcano la soglia del reale. Percepisco le mie installazioni come post-virtuali. Forse ci sono degli aspetti del mio lavoro dove un elemento se codificato o renderizzato potrebbe avere senso, ma al momento non ne sento la necessità.