INTERVISTA A JESSICA STOCKHOLDER
ELISA MUSCATELLI
Elisa Muscatelli – Come descriveresti la tua pratica artistica a un pubblico che la incontra per la prima volta?
Jessica Stockholder – I confini tra le cose, i limiti, come li percepiamo, oggetti che che cercano la loro autonomia e dipendenza.
EM – Vieni spesso definita scultrice anche se hai ribadito più volte che le tue opere sono più avvenimenti e situazioni
JS – Non mi interessa molto se sono recepita come scultrice o pittrice, mi interessa la storia di entrambe queste categorie di attività umana. Il mio lavoro, nella misura in cui è coinvolto con la superficie e la creazione di immagini e con la composizione, rientra nella storia della pittura, ma per quanto riguarda il materiale e lo spazio in relazione alla creazione di immagini, è molto in dialogo con la storia della scultura. Entrambe queste categorie e convenzioni sono importanti per me. La cornice intesa come uno strumento, un dispositivo umano, sembra avere più resistenza del piedistallo all’interno del mondo dell’arte in questo momento. Sono interessata alla relazione tra sensualità, esistente in forma umana all’interno di un corpo, e l’esperienza della vita e del tempo, un momento così come un altro, sono momenti molto particolari, momenti ed esperienze; mi interessa quella parte di esperienza umana che si scontra con l’astrazione. Il linguaggio è astratto, anche le immagini sono sempre astratte, non esistono di per sé.
Una foto di qualcosa è un’astrazione in relazione all’esperienza di quel qualcosa.Proponiamo immagini per essere senza tempo, per congelarle in un solo momento, ma naturalmente nulla è senza tempo, tutto esiste nel tempo, ma noi proponiamo l’astrazione come un modo per comunicare l’un l’altro nel tempo. Quindi le superfici e le texture e la materialità di cui sono fatte le cose, il tipo di materiale, che sia plastica o pietra o ceramica o vernice, tutti questi materiali sono molto specifici e li uso per creare delle esperienze che sono specifiche, e al tempo stesso che abbiano come riferimento delle forme che trascendono la loro specificità. Questo è un modo per un modo rispondere alla domanda. E voglio aggiungere che noi vediamo la superficie, la superficie delle cose, i nostri occhi e il nostro senso della visione risponde alla superficie. E quindi le superfici hanno il potenziale per creare illusione e finzione: possono essere ingannevoli, ma possono anche essere piene di una sorta di narrazione. Il mio lavoro non è letterario, non ho storie che hanno un inizio, un mezzo, una fine, in senso verbale, ma io conferisco valore alla pittura e alla superficie e credo nella capacità della superficie di evocare altri tipi di spazio, che sia uno spazio percettivo, o che sia anche uno spazio emotivo. La superficie è anche la pelle, ed è un organo, è una parte del nostro corpo che è un organo ed è permeabile, quindi diventa il confine tra noi e il resto del mondo, ma resta comunque un confine permeabile. E dipingere la superficie è spesso una metafora legata alla pelle del corpo.
EM – Contenimento, esplosione, casualità, ordine ossessivo, forme che cercano differenti appoggi nello spazio. Quale è il legante di elementi così differenti tra loro?
JS – Beh ci sono due domande in una, una riguarda l’ordine e il disordine e la relazione tra le cose in un certo senso e io sono interessata a fare uso della casualità e della serendipità, ma non gli do molto penso, tendo a non spendere molto tempo a cercare il giusto materiale nel mio lavoro. Prendo vantaggio di quello che ho a disposizione e creo qualcosa che è molto ordinato e controllato, ma lascia anche spazio all’improvvisazione e a cose che in un certo senso sono meno ordinate. Per quanto riguarda Assist, il mio lavoro, si tratta di una serie di opere che ho iniziato nel 2015. Sono sculture che non stanno in piedi da sole, quindi devono essere legate a un’altra cosa, che può essere fornita da me, o da un curatore, o se qualcuno possiede l’opera, dovrebbe scegliere il supporto, in modo da restare collegato a me in qualche modo. Questa idea è molto legata al fatto che i dipinti hanno bisogno di un supporto, hanno bisogno di essere appesi a un muro. I dipinti non sono fatti per stare in giro, o sul pavimento, sono appesi a un muro, quindi le opere di Assist sono legate a questo concetto, solo che non è visibile un elemento che spieghi questo pensiero. Se entri in una mostra e vedi Assist legato ad altri oggetti e non hai letto qualcosa o parlato con la gente riguardo l’opera, potresti pensare che l’oggetto che sostiene Assist sia una parte dell’opera. Quindi è una proposta complicata, ma mi piace molto ed è una cosa che continuo a portare avanti. Ho fatto molti lavori di installazione, e quando uso la parola installazione nel mio lavoro significa che il lavoro è legato all’architettura. Il confine tra la cosa che ho fatto e la stanza o l’edificio con cui si relaziona non è chiaro, e l’opera non può essere separata dall’architettura, anche se continua ad avere un’autonomia che è distinta da quella architettura. Quindi la relazione tra Assist e il suo punto di appoggio è paragonabile ad un confine complicato. Proprio come prima abbiamo parlato della nostra pelle in quanto confine complicato tra noi e il mondo.
EM – Le tue installazioni mi ricordano molto il linguaggio della fiaba, dove spesso ci sono elementi metaforici che hanno richiami all’ambito del piacere.
JS – Non riesco bene a identificare quali siano quelle cose nei miei lavori che vengono usate come simboli nel modo in cui descrivi la favola, ma penso che il mio lavoro sia molto incentrato su questioni riguardanti il piacere e i problemi che riguardano la vita, e anche le relazioni che si instaurano tra piacere, sofferenza, sacrificio e complessità.
Anche se non posso fare un confronto diretto tra il mio lavoro e le favole, perché il mio lavoro non è così descrittivo, e non ha, come dire, un suggerimento su quello che uno dovrebbe trasmettere all’interno del lavoro, penso che il mio lavoro sia un posto che riconosce quel tipo di soggettività, lo stesso tipo di soggettività di cui parla anche la favola. E anche la complessità, la negoziazione tra il proprio interno, il proprio spazio emozionale soggettivo e il proprio pensiero, e le strutture del mondo che noi condividiamo. Il mio lavoro è coinvolto in questo, e anche il colore è un aspetto centrale che riguarda il piacere, è difficile esprimere a parole il perché di questo, ma è così.
Colori diversi penso che significhino cose diverse, alcuni dei significati hanno a che fare con la relazione con se stessi, dove si trovano le persone ed il paesaggio; se l’oceano è blu e il cielo è blu, il colore assume poi quel significato e si riferisce alle cose attorno a te. Se vivi nel deserto probabilmente hai un rapporto diverso in base a quello che i colori significano in quel posto, che è diverso ad esempio a dove sto vivendo qui a Chicago. I colori hanno anche un diverso simbolismo culturale, e anche questo cambia a seconda del tempo e del luogo. Penso che abbiamo anche una relazione fisiologica con il colore. E tutto ciò è emotivo, e collegato alle emozioni. Penso che le favole, le storie in generale, la narrativa, affrontino idee e strutture per sviluppare pensieri e mettere a fuoco argomenti collegati alla vita in relazione ai sentimenti, piaceri e dolori. Quindi penso che il mio lavoro, in questo senso possa essere accostato ad un regno simile a quello delle fiabe.
EM – Penso alle tue opere come a esseri umani: alcune necessitano di qualcosa per reggersi, altre si ergono come castelli fino al soffitto, altre invadono lo spazio. C’è un richiamo estremamente intimo e umano negli spazi che crei.
JS – Penso che il mio lavoro non abbia molto spesso un riferimento diretto alle figure umane, anche se non è sempre così, come si nota da uno degli ultimi lavori qui in studio dietro di me. Il mio lavoro riguarda sempre la relazione tra il corpo e lo spazio e la mano umana, lo spazio e la scala. La scala dell’opera è legata alla scala della mano, o alla scala del corpo o della testa, in base al lavoro. E spesso c’è anche un collegamento tra la scala di un corpo e il luogo in cui si trova. La scala è sempre un’idea relativa, diversa dalla dimensione. Possiamo misurare la dimensione di qualcosa, ma la scala di qualcosa ha a che fare con la sua dimensione relativa. E questo è qualcosa che si presenta sempre nel mio lavoro in un modo o in un altro, in relazione al corpo. Ma io non mi visualizzo come se stessi facendo un lavoro in senso totale, il più delle volte faccio opere in cui non sto chiedendo alla gente di dimenticare la natura dell’ambiente in cui è collocato il lavoro. In inglese enviromental work è un ambiente che funziona come quello del cinema, dove entri e ti dimentichi che sei in un cinema, e ti perdi nel flusso della finzione del film. Mi piace questo tipo di esperienza e non ho niente contro di essa, ci tengo molto, ma non è quello che faccio nel mio lavoro. Nel mio lavoro sono interessata a mantenere un senso di realtà rispetto a dove il lavoro è collocato, anche se creo qualche esperienza disturbante, questa diventa un esprimere qualcosa su ciò che è quello spazio. Quindi non voglio che il lavoro cancelli il luogo o sito, voglio che il lavoro crei domande sulla relazione tra lo spazio fittizio, dove ci si perde nella fabbricazione di qualcosa che non fa parte della nostra realtà quotidiana, e si crea una domanda sul rapporto tra quotidianità e realtà dello spazio e del luogo, e la finzione.
EM – A parte John Cage ci sono stati riferimenti artistici, letterari, cinematografici che hanno avuto un impatto importante nel tuo percorso artistico e personale?
JS – È una buona domanda, non c’è una persona sola, penso che ci siano diverse persone e tipi di lavoro che mi hanno influenzato. Penso al minimalismo, che è stato molto importante per me il mio lavoro. Il mio lavoro non sembra minimalista, non è minimalista, ma io penso che il minimalismo, ad esempio Agnes Martin, Donald Judd, Robert Ryman, hanno aperto la strada per il tipo di lavoro che faccio, dove quel dettaglio minimo ha richiamato l’attenzione su ciò che c’è intorno e su quello che c’era. E anche il lavoro di Schwitters, e le opere di Rauschenberg, e il dadaismo. Nel lavoro dada si usavano oggetti per fare delle opere e il dadaismo ha portato il significato di quegli oggetti all’interno del lavoro stesso. Il mio lavoro ha preso molto da quegli artisti, e poi anche dal surrealismo, la tazza da the di Max Ernst e Meret Oppenheim, molti riferimenti e storie diverse. Ho molte storie, io sono cresciuta a Vancouver in Canada sulla costa occidentale, e il lavoro delle Prime Nazioni mi ha influenzato molto. Fin da quando ero molto giovane ho preso molta familiarità con il lavoro di Robert Davidson, e sono cresciuta circondata da molte sculture di Robert Reed. Quando ero bambina sono stata rapita dalla visita al Louvre, e mi ricordo il puntinismo, ero davvero affascinata da come quei diversi piccoli punti di colore sommati fossero poi sia un’immagine, sia una miscelazione di colori visibile a distanza. Quindi molte influenze diverse.