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a cura di Stefania Burnelli
Siamo tutti angeli caduti? E’ questa domanda, forse, la chiave dell’opera di Alessandro Vitrone. Nel suo irriducibile eclettismo, l’orizzonte espressivo dell’artista si distende tra aderenze terrene e nostalgie trascendenti, tra concretezza e mito. Ben al di fuori, comunque, di qualsiasi visione fideistica o escatologica.
E’ un’arte che pone al centro il corpo, la sua figurazione e la sua trasfigurazione, e che passa con la stessa disinvoltura dai toni sottili e i valori grafici più tenui a tocchi e bagliori di sapore teatrale e barocco.
Pittura, fotografia, sperimentazioni tecnico-alchemiche sono il linguaggio preferenziale di un autore raffinato ed eccentrico, il quale si cimenta da sempre con un tema che nell’arte contemporanea è di una vastità impressionante. Il corpo, corpo-dolore, corpo-piacere, carcere, tramite, soglia, limite, negazione, corpo-materia, corpo-metafora, il corpo come fisicità ineludibile e insieme come massima potenzialità simbolica di un’epoca virtuale e immateriale come nessun’altra.
Il corpo nella ricerca di Vitrone è quasi una mappa delle percezioni: percezione di sé in relazione agli altri, del mondo nel senso più intimo ed ampio, della sfera di ciò che è inconosciuto, anche di là del naturale, del ragionevole, del razionale.
Tra gli opposti poli del celeste e dello ctonio si muove l’essere umano, destinato a una quotidianità fatta di speranze e di angosce, di slanci e di cadute. Una dimensione e un destino che hanno sempre interessato e affascinato le menti, tra filosofia, antropologia, apocalittica.
L’arte di Vitrone, focalizzando sul corpo umano come campo di tale conflitto, è capace di accenti rarefatti di struggente fragilità e bellezza (in combinazione, alle volte, con moduli astrattivi puri, costruttivi, geometrici), ma indugia volentieri – come nella serie fotografica “Restituzione” – su rapporti di peso/volume/cromia di gusto vigoroso e drammaturgico.
L’originale impiego, in pittura, di materia traslucida o satinata accanto a materia corposa ed opaca, e la ricerca, in fotografia, di effetti pittorici di straniante artificio, danno all’opera di Vitrone un’inconfondibile capacità “di presa”.
Incontrastato protagonista di tanti “frammenti di serie” ci resta negli occhi il corpo – algido e astratto, oscuro e sublime. E ci interroga ancora una volta sul nostro destino, restituendo per un attimo, in un gioco di specchi e riflessi, l’impronta dei sogni perduti.
Stefania Burnelli