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    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A PAOLO BARALDI E DANIELE MAFFEIS DI UPPER ART
    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A PAOLO BARALDI E DANIELE MAFFEIS DI UPPER ART
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    In occasione di ARTDATE 2013, Paolo Baraldi, Daniele Maffeis e Simone Longaretti apriranno il loro studio upper Art in via Pescaria 1, Bergamo

    Venerdì 17 Maggio dalle 21.00 alle 24.00

     

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni

    Photo di Maria Zanchi

     

    Cosa è upper Lab?

    PAOLO BARALDI – E’ un’associazione che gestisce lo spazio omonimo, nel quale si svolgono attività di coworking. Ospita diverse realtà che collaborano, fra le quali una è upper Art, composta da me, Simone Longaretti e Daniele Maffeis; siamo tre artisti che portano avanti la loro ricerca individuale e curano la parte espositiva dello spazio. Le altre realtà sono Yanzi, HG80, Matè Teatro, Spazio Teatro, Gattoquadrato.

    Collaborate tutti, oppure condividete semplicemente lo spazio?

    PB – Il coworking, così come vorremmo declinarlo qui,prevede tre momenti, uno consequenziale all’altro. Il primo, è che ognuna di queste realtà porti in dote il proprio bagaglio di esperienza. Il secondo passaggio prevede che i vari soci di upper Art si rivolgano alle potenzialità interne, se possibile, senza cercare altrove; ad esempio, se  a noi di upper Art serve un grafico, se ce ne è uno qui, mi rivolgo a lui. La terza fase, che è quella cui stiamo arrivando,suppone che nascano progetti ex novo dalle realtà che collaborano ad upper Lab.

    DANIELE MAFFEIS – Inoltre l’associazione culturale, oltre a sviluppare nuovi progetti, vuole anche essere promotrice di eventi, soprattutto interne allo spazio espositivo, e nella gestione e organizzazione di questi momenti  collaboriamo tendenzialmente tutti.

    Cosa era questo spazio prima?

    PB – Precedentemente era parte della SAACE, poi è stata per molto tempo una falegnameria e, in ultimo, ha ospitato la Tupperware. Dopodiché è stata sfitta per circa sei mesi, finché la cooperativa HG80 non ha pensato di affittare lo spazio per poi proporre ad altre realtà strutturate di condividerlo, come fossimo una società terza che cogestisce il luogo.

    Da cosa scaturisce il desiderio di creare un luogo come questo?

    PB – L’idea era fondamentalmente di ‘condividere le cose belle’: abbiamo voluto prendere uno spazio grande, in cui convergere idee e progetti, a partire da un luogo stimolante. Non ci interessa la logica che ha animato il panorama culturale underground di questa città negli ultimi anni,ovvero ognuno lavorare nel proprio orto. A Bergamo è la prima realtà di questo tipo. C’è stato un meccanismo atipico nella costruzione, ovvero non avere un progetto ed affittare uno spazio ma, al contrario, la cooperativa HG80 ha affittatolo spazio e poi proposto ad altre realtà, ritenute interessanti e potenzialmente interessate, di partecipare. Nell’arco del mese di settembre 2012 abbiamo occupato praticamente tutti gli spazi disponibili, sono rimaste una o due scrivanie.

    Cosa intendi per ‘una o due scrivanie’?

    PB – Alcune realtà, come noi di upper Art o Gattoquadrato,hanno uno studio, alcune hanno un ufficio, come HG80, altre ancora hanno una scrivania, un posto più affrontabile economicamente, che comunque consente loro di usufruire dello spazio espositivo.

    Un privato puòchiedervi una postazione, o deve essere per forza un’associazione?

    PB – Può essere anche un privato, ma si deve associare ad upper Lab. Ovviamente prima verifichiamo insieme se ci siano le condizioni perché questo avvenga.

    Ditemi di upper Art.

    DM – Io, Paolo e Simone abbiamo fatto l’Accademia Carrara insieme. Quando Paolo ha dato vita a questo progetto insieme alla sua cooperativa HG80, voleva portare il suo studio personale qui, e ci ha chiesto semplicemente se volessimo collaborare. Dal mio punto di vista è stata una proposta molto bella, rivelatasi anche produttiva, nel senso che lavorare a casa propria è molto diverso dal lavorare in uno spazio insieme ad altre persone, con le quali puoi confrontarti, avere uno scambio.

    PB – La presenza dello spazio espositivo ci ha anche permesso di non concentrarci unicamente sul nostro percorso, ma dare ad altri la possibilità di esporre i lavori e fare approfondimenti. Viviamo con preoccupazione il fatto che ci sia un gap fra la realtà e l’arte contemporanea,fra gli artisti e quello che succede. Credendo poco in un’arte autoreferenziale, ma più in una creatività che abbia uno sguardo politico e sociale, abbiamo desiderato che lo spazio espositivo ci supportasse in questo:coinvolgere gli altri.

    Rimanete tre artisti che lavorano individualmente, o c’è anche un momento in cui convergete sotto il profilo lavorativo?

    DM – Un progetto firmato a tre mani ancora non esiste,potrebbe succedere in futuro, magari. Certo non era la condizione sine qua non per iniziare a lavorare insieme. Ognuno procede con la propria ricerca anche se, lavorando insieme nello stesso spazio, spesso ci contaminiamo. Collettiva è invece la dimensione organizzativa e curatoriale dello spazio.

    Quale è secondo voi il valore aggiunto della condivisione dell’esperienza artistica piuttosto che la creazione individuale?

    DM – Il piacere di fare le cose uscendo dall’autoreferenzialità, o almeno provandoci. Avere questo spazio per noi è un’opportunità: depositiamo le idee, le facciamo decantare, ci confrontiamo con gli altri. Il valore aggiunto è sicuramente questo.

    Ditemi sinteticamente di voi, come artisti prima dell’esperienza di upper Art.

    PB – Ho cominciato nella prima metà degli anni ’90 con i graffiti, non ho fatto studi artistici, finché non mi sono iscritto a 30 anni all’Accademia Carrara. Mi sono occupato molto di Arte Pubblica. Tendenzialmente preferisco lavorare nello spazio pubblico, piuttosto che in quello istituzionale. Ultimamente sto lavorando molto con l’affissione, sia legale che illegale.

    DM – Anche io sono approdato tardivamente agli studi artistici; ho finito l’Accademia Carrara adesso, dopo essermi laureato in Psicologia. Ultimamente sto disegnando parecchio, e anche scrivendo. Gli ultimi due lavori cui mi sono dedicato sono storie illustrate. Quando faccio un lavoro amo puntare  lo spot su un argomento, su una questione, e analizzarla in maniera approfondita; poi che la  restituzione siano dei disegni, una fotografia, un video … è abbastanza irrilevante, perché non sono affezionato ad un medium specifico, mi piace cambiare spesso.

    Gli obiettivi che vi prefiggete.

    PB – Per quanto riguarda upper Lab sono quelli del coworking,muovere cose belle in città e condividerle. Perseguiremo questo  obiettivo. Per quanto riguarda upper Art intendiamo riportare alla realtà quella parte di arte contemporanea con cui siamo in contatto. I nostri percorsi vanno avanti in autonomia, ma sul piano curatoriale di certo c’è uno sguardo non edulcorato sul reale e sul sociale, e vorremmo proseguire in questa direzione.

    DM – Quando siamo entrati qui, l’intento primario era portare avanti la nostra ricerca, e ci siamo ritrovati a gestire lo spazio espositivo,mansione che non era contemplata inizialmente. Per questo, stiamo cercando di sintonizzarci su questa nuova esperienza, correggendo il tiro, muovendoci anche per prove ed errori, nel tentativo di far qualcosa di interessante.

    Come gestite lo spazio espositivo? Vi si può chiedere di esporre, operate una selezione oppure siete voi ad inviate gli artisti?

    PB – Ci stiamo muovendo in due direzioni: accettare le proposte dagli artisti, e proporre noi stessi di esporre a degli artisti che riteniamo interessanti, chiedendo loro di progettare qualcosa di specifico per lo spazio.

    Vi rivolgete in maniera privilegiata all’ambito locale?

    PB – Partiamo dai contatti che abbiamo qui, ma negli anni abbiamo sviluppato anche conoscenze altrove, e questo sta portando ad incrociare anche artisti stranieri. Ci piace anche vedere degli artisti durante il loro processo creativo, che vengano qui, sviluppino  il progetto e lo lavorino sul posto, in un arco di tempo da definirsi  a seconda dei progetti e dei soggetti coinvolti. In ogni caso vorremmo mantenere un gradi di accessibilità gratuito allo spazio.

    DM – Non ci dispiacerebbe sperimentare modalità di messa a disposizione dello spazio partendo dalla creazione di una sorta di bando.

    C’è un progetto cui state lavorando attualmente?

    PB – Quello di Artdate è un progetto che seguiamo a più mani, sia dal punto di vista progettuale, sia processuale. Il tema è la repressione.Dovrebbe essere il primo appuntamento di un percorso più lungo, che sfoci nell’approfondimento e non rimanga solo espositivo.

    In che rapporto siete con le istituzioni?

    PB – Come upper Lab ed upper Art praticamente zero. E’ vero che non ci siamo neanche mossi in questa direzione, perché desideriamo essere indipendenti. Allo stesso tempo, ci dispiace e ci fa porre delle domande il fatto che nessuna istituzione si sia mossa nei nostri confronti. Non dovrebbero essere sempre i cittadini ad elemosinare attenzioni da parte di Comuni, ma piuttosto sarebbe giusto che questi possedessero uno sguardo maturo tanto da cogliere le eccellenze, i problemi e le opportunità che ci sono. The Blank è l’unica realtà strutturata che si è messa in contatto con noi, non su nostra iniziativa.

    Ragionavamo con Mario Cresci sul fatto che Bergamo è candidata a capitale della cultura 2019.

    PB – Se si arriverà a quel traguardo, e glielo auguro, credo emergeranno solo  le realtà a cui ad oggi è stata data visibilità nel panorama culturale di questa città, che spesso corrispondono anche alle realtà di tipo economico. Non mi aspetto una grande vetrina per le iniziative indipendenti e più o meno giovanili.

    Una vostra lettura del ‘sistema arte Italia’.

    DM – Nel sistema arte Italia non mi sento integrato, diciamo che lo vedo da fuori. Posso dire che non si sente un grande supporto da parte di chi dovrebbe offrirlo. C’è tanto entusiasmo e tanta qualità, tante cose strutturate in cui però entrare è difficile se non hai la letterina o l’invito …ma quello è ‘normale’, non me la sento di fare paragoni con altre realtà, ma questa è la dimensione Italiana in senso più generale, mi vien da dire.

    PB – Il funzionamento del sistema dell’arte italiana, a mio avviso, è molto simile al sistema discografico: il fatto di investire sul musicista non è diverso dall’investire su un artista, ed è un fatto che rincorre i gusti dell’acquirente per andare nella classifica, in entrambi i contesti. Molte realtà underground o indipendenti hanno prodotto eccellenze,pur non avendo risorse. Spesso le cose buone non vengono dal main stream, ma dal sottosuolo, da gente mossa veramente dalle idee e dalla ricerca e non dal denaro … il fatto di affrancarsi dal tema soldi ti permette di fare una ricerca più autentica. Personalmente io ho sempre lavorato, parallelamente al  mio fare artistico, per necessità, ma anche perché questo mi affrancava dal dovermi mantenere attraverso l’arte, e questo mi ha permesso una ricerca libera. Ho la sensazione che in Italia sia più faticoso il percorso artistico di qualsivoglia tipo.

    Avete fatto delle esperienze all’estero? Punti di contatto tra il panorama nazionale e quello internazionale.

    PB – Ne ho fatte, ma non lunghe, due mostre, una in Finlandia ed una nei Paesi Bassi, ed effettivamente le open call funzionano diversamente: ho mandato la candidatura ed il giorno dopo mi hanno risposto, la prima volta per dirmi no, ma con molta cortesia, e mi ha scritto il Responsabile, la persona cui mi ero rivolto. Ho avuto la sensazione che ci fosse più serietà, e che guardassero meno a quello che era stato fatto prima, chi conosci, da dove arrivi. Circoscrivono l’attenzione alla sostanza, sulla proposta che porti. Noi avremo altri pregi … ma faccio fatica a farmeli venire in mente!

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