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    TB BOARD | INTERVISTA ALL'ARTISTA - MAYA ZACK
    TB BOARD | INTERVISTA ALL'ARTISTA - MAYA ZACK
    [= TB = BOARD ===== INTERVISTA = ALL == ARTISTA ====== MAYA = ZACK ===]

    INTERVISTA A MAYA ZACK
    Elisa Muscatelli

     

    Elisa Muscatelli – Se dovessi riassumere l’ambito della tua ricerca con tre parole-chiave, quali useresti e perché?

    Maya Zack – Archivio, memoria, incontro.

    Uno dei modi in cui posso articolare la domanda che sta alla base del mio lavoro è: “cosa è un ricordo vivo?” e “come possiamo creare un ricordo vivo?”. Il mio lavoro si sviluppa dalla paura del dimenticare e dall’esperienza della perdita e della scomparsa.
    Come possiamo vivere dopo che qualcosa è stato rimosso?
    Come possiamo sapere se è mai esistito e come possiamo ricordarlo?
    Indipendentemente dal fatto stia pensando a mia madre che è morta quando avevo 21 anni, all’infanzia di ciascuno di noi o all’evento della Shoah.

    Questo è anche il compito del personaggio femminile del mio film Counterlight, un’archivista di un archivio immaginario dedicato al poeta ebreo Paul Celan.
    Nel film, si trasforma da archivista in alchimista, “un’alchimista della memoria”. Usa la “memoria morta” dell’archivio – tabelle, figure, mappe, registrazioni, fotografie, poesie e altri documenti in inchiostro nero su carta bianca – e prova a resuscitarla, a generare il “golem della memoria”, un ricordo vivo. 

    Sta inventando la sua “memoria scientifica”, abbandonando il tradizionale lavoro d’archivio e orientandosi ad un approccio personale e creativo che la immette in un audace dialogo artistico con il poeta. Come risultato, inizia ad intervenire sul passato, finché raggiunge il punto del trauma e trascende in regni primordiali…

     

    EM – Le tue opere affrontano spesso il tema della memoria in relazione all’essere umano e alla sua storia collettiva. Credi che la memoria collettiva sia fondamentale per la costruzione dell’identità personale?

    MZ – Penso la memoria collettiva come un punto di riferimento e come un’arricchente fonte di conoscenza con cui amo essere in dialogo. Penso inoltre la memoria comune sia inevitabile – memoria collettiva che trova le sue radici negli eventi reali, memoria con cui siamo nati e che è conservata nel nostro corpo e nella nostra psiche come archetipi, oppure memoria collettiva immagazzinata nel nostro linguaggio. 

    Nella mia ricerca artistica mi piace affrontare casi che siano più ampi della mia esperienza personale, e attraverso cui cercare di decifrare la mia relazione / dissociazione con la cerchia a cui teoricamente appartengo.

    La mia famiglia, che è una commistione di varie geografie, storie e destini (ebrei immigrati dall’est Europa che dopo aver vissuto l’Olocausto sono venuti in Israele e una nonna cattolica, parzialmente indiana, proveniente dalle Ande venezuelane con possibili radici marrane) hanno contribuito e rendere il mio senso di appartenenza mai naturale, stabile o per me ovvio, ma a rendermi consapevole che la mia storia avrebbe potuto essere completamente diversa.

    La preoccupazione epistemologica riguardo la nostra personale identità trova una risposta in ebraico, dove le parole community ( עֲדַה), testimonianza (עֵד) e testimone (עֵדוּת) condividono la stessa radice linguistica.

     

    EM – Pensi che i tuoi lavori possano essere percepiti con più facilità da un pubblico che vive in modo profondo e personale la cultura ebraica? O credi indistintamente nella potenza di un messaggio universale?

    MZ – Credo nelle opere dal linguaggio stratificato, che possono intervenire in diversi modi e fornire vari tipi di messaggi che insieme creano un immaginario artistico complesso.

    Provo a progettare il lavoro affinché abbia un impatto a livello universale così come possa comunicare in modo specifico, stimolando diversi ambiti di conoscenza rilevanti per l’opera.

     

    EM – Questa intervista viene fatta in un momento storico inusuale in cui sui social impazza #stayathome, il lockdown altera i confini spazialila dimensione casalinga sta assumendo delle nuove caratteristiche. Molte delle tue opere presentano un ambiente domestico che si rivela come uno spazio dinamico in cui storie ed immagini del passato convivono con elementi della realtà presente. Come ti relazioni con il concetto di casa e di ambiente domestico?

    MZ – Non trovo molto strana la situazione attuale dato che per me la casa è ed è sempre stata sotto molti aspetti il mio universo, una bolla dalla quale comunico. La preoccupazione per la casa, la vita domestica, l’ambiente interno e come questo si integri con la mia pratica artistica è il fondamento del mio lavoro. Ad esempio, in Mother Economy (la prima parte della trilogia) la “casa” gioca la parte della “scena del crimine” con gli oggetti nello spazio come prove scientifiche, il laboratorio del “detective” è la cucina, il luogo dove vengono presentati i risultati finali è il tavolo da pranzo e l’equazione finale che riassume le indagini – un diagramma economico- viene servita al tavolo come un Kugel a fette (tradizionale budino ebraico di forma rotonda).

    E viceversa, sia in Black and Wite Rule che in Counterlight, le protagoniste (una scienziata e un’archivista) sono nel loro luogo di lavoro, vivono ed esistono solo lì.

     

    EM – Una donna che sfugge al controllo del tempo in Counterlight, cani che sembrano svincolarsi da comandi imposti in Regola in Bianco e Nero, una governante ben composta che cataloga oggetti domestici in Economia Madre. In questa trilogia di memorie dalla narrazione stratificata l’ordine, accompagnato dalla memoria, sembra essere il filo conduttore. In che modo il concetto di ordine si instaura in opere così diverse? Quale opera si può considerare uno spin-off di questa trilogia?

    MZ – Tutte le parti della trilogia sono improntate sulla tensione tra il lato ordinato, fattuale, oggettivo, empirico, scientifico, burocratico, effettivo e il lato caotico, ermeneutico, soggettivo, pseudo-scientifico, sensuale, artistico e magico. 

    Il principio dell’ordine nei lavori è accompagnato da una disperata e meticolosa ossessione di documentare all’infinito, come a preservare l’informazione e salvarla dall’essere persa, un tentativo di controllare il caos e far fronte al trauma e alla mia paura del dimenticare, sia a livello personale sia collettivo.

    Il progetto a cui sto lavorando in questi giorni (che comprende un video, un libro, disegni e un’installazione) può essere considerato come un progetto spin-off: insisto sulla mia preoccupazione riguardo la memoria, ma anziché affrontarla attraverso l’asettico ed estinto archivio della memoria, mi rivolgo alla memoria insita nel corpo, che riguarda fluidi e umidità.

     

    EM – Memoria…un termine che risuona nelle tue opere in modo quasi imperativo, mi viene da chiederti cosa non ci dovremmo mai dimenticare…

    MZ – Non dovremmo mai dimenticare che ogni cosa è destinata ad essere dimenticata… ma che possiamo ancora trovare un modo per connetterci con l’assoluto, l’eterno, altre forme mnemoniche, forse la memoria matriarcale che non è stata documentata nell’ordine patriarcale e che nasce da quell’oblio.

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