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    The Blank Board | Intervista a Ferrario Frères
    The Blank Board | Intervista a Ferrario Frères
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    In occasione di ArtDate 2013,
    I Ferrario Frères apriranno il loro studio
    in via Borgo Canale 9, Bergamo

    THE BLANK BOARD

    un progetto di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

    Cos’è Ferrario Freres?

    F – Anni fa mi trovavo in Francia, sul massiccio centrale dei Pirenei, e ho visto passare questo camion con la scritta “Ferrario Frères”, che significa fratelli Ferrario. Nel 2000, quando io e l’altro componente del gruppo, abbiamo fatto la mostra alla Chiesa della Maddalena, abbiamo ripreso questo nome, e abbiamo dedicato l’esposizione a mio cugino, morto poco tempo prima, con il quale lavoravamo. Non ci interessa l’emergere della singola individualità, ci riconosciamo in questa etichetta, che ci accomuna: il nome e l’idea di lavorare in gruppo è nata dall’esigenza di ricostruire un insieme, questa identità che avevamo perso.

    Parlami della tua formazione.

    F – Faccio l’artista da quando avevo 14 anni. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Bergamo, e ho una formazione prevalentemente pittorica. In seguito mi sono invece dedicato di più alla Fotografia, dopo ancora al video.

    Quale è il vostro indirizzo privilegiato di ricerca?

    F – La memoria, sicuramente, ma lavoriamo parecchio anche sull’istinto: negli ultimi anni abbiamo preso un viraggio spirituale, volontario od involontario. Ad esempio, attualmente stiamo sviluppando un lavoro sull’Australia; abbiamo conosciuto un antropologo, che ci ha raccontato la visione del mondo che hanno alcuni aborigeni, secondi i quali la il messaggio della vita viene trasmesso da animale ad animale, attraverso dieci passaggi di comunicazione che conducono all’uomo. Spesso i nostri progetti vengono rivoluzionati completamente in corso do’opera.

    Più che un indirizzo privilegiato di ricerca, c’è un’attenzione che deriva dall’esperienza del vivere.

    F – Esatto … anche il lavoro sull’ayahuasca nasce da un’esperienza personale, un viaggio in Brasile e l’incontro con questo rituale, finalizzato alla preparazione della bevanda. L’ayahuasca viene chiamata la ‘liana degli spiriti’, perché è potentissima, e una volta assunta di porta a fare un viaggio dentro te stesso, durante il quale devi solo accettare quel che succede, perché gli eventi sono al di là di te. Ricordo che lo Sciamano che conobbi in quella circostanza mi disse: “quando hai bevuto, non puoi più tornare indietro”. Ho provato delle sensazioni intensissime e, da allora, quando penso a cosa è la quotidianità in questa società, mi sento fuori luogo, se non avessi la dimensione dell’Arte in farei veramente fatica, perchè mi consente di ricollegarmi a quello che secondo me è il mondo sottile, e cercare di trasmetterne l’emozione. Per me è doveroso tentare di infondere questa emozione nel prossimo, anche per questo non comincio mai un lavoro se non è motivato.

    Voi lavorate come un collettivo, ma quelli di cui parli mi sembrano lavori che nascono dalla tua esperienza personale.

    F – Non facciamo questa distinzione; Mauri è la parte più analitica, io più borderline, quindi il confronto con lui mi è utilissimo per riassestarmi e rientrare nel mondo quotidiano.

    In alcune opere compaiono dei personaggi mitologici, dei Centauri.

    F – E’ un vecchio lavoro, risale a 15 anni fa. Allora addestravo cavalli nella bassa bergamasca, dove abitavo con i miei. Gli animali mi hanno sempre appassionato, e la loro vicinanza mi ha fatto riflettere sul connubio fra uomini ed animale, quindi li ho omaggiati con questo lavoro, che affronta la tematica della metamorfosi.

    Notavo che molti lavori mostrano una certa disinvoltura nell’impiego di tecniche diverse. Ce n’è una che attualmente prediligete, o preferite la commistione di linguaggi?

    F – Innanzitutto prediligiamo lavorare sullo spazio, ci piace l’idea dell’opera che cresce nel e per il luogo che la ospita; quello che facciamo è un lavoro di contaminazione. Uscire dallo schema che ci siamo prefissi, dal progetto iniziale, per noi è molto importante, perché ci permette di essere dinamici e non fossilizzarci. Trovo decadenti quegli artisti che si concentrano per tutta la vita su un modulo, perché l’intento dovrebbe essere quello di evolversi continuamente.

    Secondo te come mai capita che un artista si fossilizzi su una tipologia od un modulo?

    F – Questa speculazione che sta dietro all’Arte, cioè i collegamenti con galleristi, critici, collezionismo … è una cosa con la quale non mi sono mai misurato. Un artista non dovrebbero mai accettare di scadere in un circuito simile, ma tante volte il problema è che non hanno più niente da dire … e vengono triturati dal sistema. Per me lavorare per un motivo, avere qualcosa da dire, è il fondamento; è una visione un po’ romantica, ma penso ci sia bisogno di recuperare questo aspetto sensibile.

    Non temi che questa concentrazione sulle tue percezioni possa tradurre il Vostro lavoro in qualcosa di autoreferenziale?

    F – Si, forse in parte è autoreferenziale, ma questo deriva anche dal fatto che c’è una disattenzione sul mondo sensibile, spesso i giovani si perdono nelle disattenzioni che il mondo contemporaneo propina … molti lavori che facciamo sollevano questi interrogativi, ma educare attraverso l’arte è difficile, così come trasmettere delle sensazioni.

    Spesso lavorate site specific: come vi muovete per relazionarvi nello spazio, e quanti vi influenza?

    F – Ci influenza moltissimo, lo spazio ispira, suggerisce. Quando entro in un luogo cerco di cogliere l’impressione che mi trasmette, e quindi di lavorare su quella. E’ accaduto così alla Chiesa della Maddalena, ma anche alla Basilica di Santa Maria Maggiore.

    La tecnologia che spesso supporta le opere d’arte contemporanea, e la spettacolarità che ne deriva, a volte appare come un palliativo dei contenuti.

    F – Anni fa mi è capitato di vedere un lavoro, e di pensare che la traduzione del messaggio in chiave tecnologica fosse una stridente. Ci deve essere sempre un passaggio, un filtro: se lo forzi, hai vanificato il lavoro.

    Prima hai parlato del tuo viaggio in Brasile, vorrei che mi parlassi di un’altra esperienza importante.

    F – Sicuramente il viaggio che ho fatto in Siberia, durante il quale ho conosciuto un Padre che mi ha fatto percepire un tipo di spiritualità che non avevo mai colto prima.

    Quale è il sogno che vorreste realizzare attraverso le Vostre opere?

    F – Trasmettere sempre di più la parte sottile, sensibile. Questo viaggio intimistico è fondamentale per ritrovare te stesso, nel bene e nel male, per riuscire a mantenere puro il punto di vista, mantenere l’essenziale della vita, anche se devi dibatterti nel quotidiano, nei conflitti.

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