INTERVISTA A JUNE CRESPO
ELISA MUSCATELLI
Elisa Muscatelli – Come descriveresti la tua pratica artistica a un pubblico che la incontra per la prima volta?
June Crespo – Gli direi che troverebbero per lo più sculture, che è il medium che utilizzo di più e produco oggetti che a volte appartengono all’ambito della scultura, ma a volte sono oggetti che per quanto riguarda la produzione sono sul confine tra varie, non direi discipline, ma modi di organizzare e sono più vicini al collage o all’assemblage. Molte volte è anche presente nelle mie sculture un elemento stampato e un uso sperimentale delle immagini, si tratta di un elemento ulteriore che compare tra i materiali differenti che uso nelle sculture. A chi non mi conosce direi che la metodologia o strategia che utilizzo riguarda la trasformazione materiale di elementi preesistenti, appropriami, riconfigurare e produrre tramite tagli, frammenti o ingrandimenti o il ridimensionamento di oggetti quotidiani.
Li riconfiguro, cambio il materiale, li combino in nuove forme o cerco loro una nuova collocazione; è una sorta di riconfigurazione, differenti frammenti con differenti origini. Quello che mi piace è mettere assieme elementi che provengono da differenti parti, parti distanti, e questo incontro è qualcosa che ha un potenziale associativo che è diverso per ciascuna persona che si approccia al lavoro, perché non voglio dare nessun significato, senso o messaggio. È qualcosa che accade più in modo materiale che concettualizzato, i miei lavori alla fine sono nuove entità, un elemento che si auto sostiene e che si relaziona al pubblico in modi diversi o in base al modo in cui uno vuole relazionarsi con esso.
EM – Nelle tue opere elementi caricati di una memoria intima e domestica incontrano materiali industriali e sperimentali. In che modo queste due sfere entrano in connessione o in collisione?
JC – Sì direi che nei miei lavori questo accade nelle scelte o nei materiali che scelgo per il processo e negli anni precedenti, ora di meno, era molto frequente l’idea di fare tagli o mostrare una traccia di differenti superfici o elementi dei posti in cui lavoravo o vivevo, specialmente negli ultimi anni. Produrre lavori a partire da diversi elementi architettonici dei posti in cui vivevo o lavoravo è un modo in cui introduco l’aspetto domestico e intimo, ma ci sono anche altri modi, il più rappresentativo forse è l’utilizzo che faccio di vestiti e come questi siano in collisione, contrasto o nel mezzo o dietro ad altri materiali come calcestruzzo, metallo, alluminio, silicone, resina. Sono per lo più miei vestiti e in questo senso sono una cosa che mi appartiene e quindi intima. Li ho indossati per mesi o anni e introdotti nelle sculture come un elemento affettivo, ma sono relazionati anche all’uso generale dei tessuti, non solo vestiti ma anche elementi che appaiono nel nostro vivere quotidiano, tappeti, coperte, con cui si ha una esperienza tattile e di vivere quotidiano. Toccano diversi aspetti e una memoria che tutti possono ricondurre alla propria esperienza, non è un’idea biografica dell’uso dei vestiti, perché molte volte non sono miei, è più una cosa legata al segno di un’esperienza che tutti possono riconoscere in senso effettivo ma anche in senso materiale tattile e fisico. Dall’altra parte uso questi elementi come calcestruzzo, resina, metallo e altri elementi che sono quelli usati nella costruzione dei frammenti, molti sono elementi che uso e che mi circondano.
EM – Molti tuoi lavori si presentano come plinti in cui vengono accumulati diversi materiali, ma nonostante l’eterogeneità ogni opera sembra lavorare su un’idea astratta precisa. In che modo dialogano l’accumulo e l’astrazione?
JC – Quando lavoro non c’è una idea precisa, ma più una precisa intuizione, un qualcosa a cui non riesco a dare un nome, e queste intuizioni, emozioni, percezioni sono tradotte nel modo in cui combino i materiali e anche nella loro interazione. Non direi un’idea astratta ma un incontro, una negoziazione tra me come soggetto e l’oggetto che sto facendo, il risultato di questa configurazione, a volte fatta anche con l’accumulazione, è un processo di circolazione e negoziazione tra me e l’oggetto, tra quello che desideravo e cosa attualmente desidero. Questo atto di riconoscimento avviene spesso nel mio lavoro, realizzo e riconosco gli elementi durante il processo, non c’è tanto un’idea ma una negoziazione, un contatto vero e proprio con gli elementi che riconosco nel processo e questo avviene da fonti differenti. Quello che cerco è una traccia e il poter vedere elementi quotidiani con una luce nuova. Gli elementi producono qualcosa di nuovo o quasi nuovo, a volte quello che accade è che l’oggetto originale è presente e lo riconosci solo girandogli attorno, lo riconosci in modo astratto, con associazioni non razionali, che parlano con il tuo corpo e le emozioni, si tratta di percepire la presenza di due cose nello stesso momento, due fenomeni distinti e contrari nello stesso elemento materiale.
EM – In Foreign Bodies (P420, 2018) le tue opere e le fotografie di John Coplans mostrano un nuovo modo di guardare i soggetti: corpi e sculture plasmati dal tempo. Che ruolo svolge il tempo all’interno delle tue opere?
JC – Direi che nel lavoro di Coplans è in quella mostra è più evidente questa trasformazione del cambiamento del corpo e del tempo, ciò che mi interessa della mostra è come il mio lavoro si relaziona ai corpi di Coplans nella fotografia e come interagiscono i nostri lavori e quell’aspetto nei suoi corpi fotografati: la pelle, la texture del corpo in sé, come si relaziona in modo nuovo con il mio lavoro, questo è molto interessante per me. Nella mia pratica in generale direi che il tempo ha più a che vedere con il processo e la pratica in sé, molte volte produco molto velocemente, ho un incontro con l’opera e vedo molto chiaramente quindi sono portata a fare un’azione e poi il lavoro è finito, ma a volte il tempo è importante per la crescita degli elementi e penso che il ruolo più importante nel mio lavoro, non intendo nel lavoro singolo, ma in generale nella mia pratica è come il processo a volte sia molto dilatato e che non posso finire un lavoro finché qualcosa nella mia vita o in me stessa non è cambiata assieme al lavoro. Quindi il tempo a volte è quella cosa che finisce il mio lavoro in un certo senso.
EM – C’è un riferimento storico, letterario o cinematografico che ha avuto un grande ruolo nello sviluppo della tua carriera artistica e personale?
JC – Sono molti, e molte volte si tratta di frammenti, titoli, frammenti di libri o elementi che ho incontrato nel tempo. È più il modo in cui mi sono relazionata con questi elementi culturali che è importante per me, e anche con altri elementi nel mio studio che in un modo o nell’altro entrano nei miei lavori. Ci sono letture o autori di diverse discipline e che in un modo o nell’altro entrano nei miei lavori sotto forma di titolo o pensiero che mi fa ragionare, ma più che riferimenti letterari o cinematografici o di altre discipline, direi che si tratta più di artisti e in particolare di artiste donne, che sono vicine alla scultura e che mi fanno progredire nella mia pratica artistica.