INTERVISTA A LAURA PUGNO
ELISA MUSCATELLI
Elisa Muscatelli – Come descriveresti la tua pratica artistica a un pubblico che la incontra per la prima volta?
Laura Pugno – Al loro primo incontro la visione me la immagino simile a quella che avrebbero immergendosi in una variante di paesaggi che si incontrano in una lunga passeggiata in mezzo alla natura una passeggiata lenta, fatta di soste che permettano di mettere in luce il rapporto tra la visione e la natura. Mi chiedo spesso se quello che vediamo sia la realtà o invece una codificazione della nostra cultura, ecco perché il paesaggio mi affascina così tanto, soprattutto perché è un luogo antropizzato e culturalmente costruito. Al termine del mio percorso nella natura rientro nel mio studio e ciò che emerge sono fotografie cancellate, calchi di neve, video installazioni di ghiaccio, incisioni su plexiglass, disegni e ultimamente anche carboncini. Ogni lavoro nasce mettendo in discussione ciò che veramente sappiamo della natura e spesso la materia stessa della natura diventa l’oggetto della mia opera come lo è stato per le sculture “Mis_love”, che ho realizzato con piante d’appartamento e poliuretano, oppure “Fading loss”, un’installazione realizzata con rami rosicchiati da un piccolo coleottero chiamato bostrico tipografo.
EM – La neve e il suono: elementi capaci di evocare una sincera meraviglia ma anche fenomeni articolati che ritroviamo in alcune tue opere. In che modo rientrano nel tuo immaginario artistico?
LP – La neve…l’interesse per questo soggetto è iniziato ormai da tre anni con l’opera “A futura memoria”, sono sculture nate realizzando calchi di neve ad altitudini diverse cercando nevi differenti, ma quest’anno la neve è davvero un tema centrale per me: infatti grazie alla vincita dell’Italian Council sto realizzando una installazione video che spero contribuisca a sensibilizzare le nostre coscienze su questo fragile e poetico materiale. In questi giorni sto giusto collaborando con Michele Freppaz che è un nivologo che come mestiere studia la neve e insegna a farlo presso l’Università di Torino, un altro approfondimento è quello della produzione di neve spray che siamo soliti vedere soprattutto durante il periodo natalizio, e tutti questi spunti confluiranno in un’unica opera video a tre canali che verrà rappresentata per la prima volta a luglio al MUSE di Trento. Mi chiedi anche del suono, pur non essendo parte della mia formazione tecnica, ultimamente è diventato un elemento che mi affascina, soprattutto quando richiede allo spettatore di fermarsi e concentrarsi. Ho collaborato proprio recentemente per la mostra “Fading Loss” con Magda Drozd una sound artist che vive a Zurigo e con lei abbiamo registrato una mia azione usando i rami segnati dalle tracce del bostrico, per cercare di evocare il percorso di questo piccolo coleottero che scavando delle gallerie nel legno taglia le linee linfatiche della pianta portandola alla morte.
EM – Qui c’è un mondo fantastico: titolo di una collettiva a cui hai preso parte, strofa della sigla di Heidi, possibile descrizione di paesaggi artificiali generati oggi dalle GAN. Con che modello di paesaggio ci confrontiamo oggi?
LP – É evidente che siamo ormai all’inizio di una nuova era, quella in cui l’ intelligenza artificiale conquisterà sempre maggiore spazio e finirà inevitabilmente per condizionare le nostre vite; si pensi alla produzione robotizzata nel campo della logistica, giusto per citare un esempio, che è già super attuale. Quindi nonostante sia ben conscia che le nuove tecnologie ci costringeranno a ripensare alle nostre interazioni, devo dire che il paesaggio digitale è una realtà alla quale non mi sono ancora avvicinata, e non conto di farlo a breve, almeno fino a quando la sua fruizione sarà monosensoriale, ovvero dominata dalla vista. A volte con i visori ci si può immergere dentro l’opera ma comunque escludendo altri sensi che ho sempre ritenuti importanti, come il tatto. Penso che il digitale sia l’ennesima vittoria della vista sul tatto appunto, e su questo conflitto ho realizzato opere cercando di dare una forma tattile al paesaggio. Mi ha sempre affascinato che nell’antica Grecia si credeva che il funzionamento della vista fosse dovuto alla presenza di un fuoco interno all’occhio che uscendo, toccando gli oggetti, li rendeva visibili. È un’immagine ovviamente ingenua dal punto di vista scientifico, ma con una carica poetica che oggi non ritrovo in uno scenario artificiale così evoluto da potersi autogenerare.
EM – Nelle tue opere è spesso presente un gioco di presenza-assenza. In che modo percepisci la tua presenza e quella del paesaggio mentre stai lavorando?
LP – Hai colto un aspetto molto importante per me, ed è ormai assodato che la presenza dell’uomo stia lasciando un segno molto tangibile, inevitabile dire che stiamo accelerando la fine dell’era glaciale, senza peraltro essere in grado di adattarci a un evento così veloce. Mi viene in mente l’opera “Moto per luogo” che è una serie di fotografie di stazioni sciistiche invernali che ho stampato su un supporto di alluminio per poi essere abraso sugli stessi pendii ritratti, con un chiaro riferimento all’azione dello scivolamento, perché penso che la presenza fisica e il peso stesso di ognuno di noi ha un impatto sull’ambiente. Ma la presenza dell’umano nel paesaggio è non solo una questione fisica, ma su questi temi ci si deve inevitabilmente confrontare con aspetti più ampi e che riguardano l’etica e la cultura. Cerco sempre di comportarmi da ospite e come dice Northrop Frey e lo cito “La natura procede da un tempo incalcolabile senza di noi, sembra averci generato solo per caso e, se mai fosse cosciente, non potrebbe che dolersi d’averlo fatto”.
EM – C’è un riferimento storico, letterario o cinematografico che ha avuto un grande ruolo nello sviluppo della tua carriera artistica e personale?
LP – Mi diventa difficile individuare un’unica figura, se ripercorro con la memoria alcuni miei lavori mi accorgo che ho incontrato molti autori che sono stati fonte d’ispirazione, per esempio l’opera “Paesaggio alle spalle”, e non solo a dire il vero, nacque durante la lettura di “La somiglianza per contatto” di Didi Huberman. In quell’opera, ho ricalcato con una punta di metallo la porzione di paesaggio che si specchiava sulla superficie riflettente di un plexiglass e il paesaggio era quello che avevo alle mie spalle, al centro dell’opera è evidente appunto un vuoto, perché il paesaggio disegnato attorno a quel vuoto non era coperto dalla presenza del mio stesso corpo. Ho poi scoperto le magnifiche fotografie di Wilson Bentley tra le righe del libro “L’invenzione dell’inverno” di Adam Gopnik. Bentley fu il primo fotografo a immortalare i cristalli di neve che ormai fanno parte del nostro immaginario e gli ho dedicato un lavoro intitolato appunto “Omaggio a Wilson Bentley” nel quale dispongo uno strato di neve su una tela, coloro la superficie della neve e lascio che questa si sciolga lasciando aderire i pigmenti alla tela stessa. Un altro esempio, forse più recente, è stata la lettura delle opere del botanico Roberto Mancuso, che è una voce che mi ha condotto alla realizzazione della mia personale inaugurata da poco alla Fondazione Zegna. In questo lavoro infatti è centrale il tema dell’impatto già attuale del riscaldamento globale del cambiamento climatico e in questo caso sulle foreste di abete rosso del Biellese. Fin qui ho citato solo libri ma mi rendo conto che in effetti pur nutrendomi anche di cinema e serie TV trovo che la forza evocativa del testo sia per me una risorsa fondamentale per le nostre opere visive, più che ispirarmi ad arti che visive già lo sono.