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    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A ANNAROSA VALSECCHI
    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A ANNAROSA VALSECCHI
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    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Martina Dierico, Clara Scola e Maria Zanchi

    Intervista: Martina Dierico e Clara Scola

    Photos: Maria Zanchi

    In occasione di ArtDate 2015 sappiamo che Giuseppe Dalla Bona comporrà la colonna sonora che accompagnerà il suo studio visit. Quale connessione ha con il suo lavoro?

    C’è una connessione diretta, concettualmente, fra il mio lavoro che nasce dalla percezione del suono e l’installazione sonora. Questa, anzi, realizza qualcosa che fin dall’inizio era quasi implicito. Tuttavia “colonna sonora” rimanda a sincronie e conseguenzialità narrative – parlo di quelle che siamo abituati ad attenderci dal cinema – alle quali questa installazione non si conforma. La temporalizzazione delle immagini sonore e l’evidenza fonica della loro fisicità non intendono suggerire la continuità di un processo evolutivo, di un qualsiasi flusso, né intendono riprodurre il mondo dei suoni che ho scelto per il mio lavoro. Intendono piuttosto connettersi con la discontinuità e la perversione del tempo cronologico indotti dall’ingresso della durata che si costituiscono, con le loro peripezie, nell’atto del vedere.

    In sintesi, intorno a cosa ruota la sua ricerca artistica?

    Il mio lavoro ruota intorno al concetto di traduzione. E’ il trasferimento di senso da una forma all’altra e della sua riformulazione. E’ una trasmutazione nella forma pittorica e segnica di contenuti, di materie narrative, di emozioni. Processi che si producono all’interno di una ricerca tesa a indagare un codice ignoto come quello della percezione riproducendo il messaggio attraverso immagini, segni visivamente leggibili. Le immagini, come esito figurativo, hanno fatto parte di un lungo periodo della mia ricerca, mentre in quest’ultima fase, pur senza abbandonarle, ho lasciato corso al desiderio che il mio segno, già per sé desiderante, fosse libero. Questo ha approfondito e rischiarato la mia lettura del codice percettivo, consentendomi di stabilire un circuito percezione/tela (prima), carta (ora). La sospensione della produzione figurativa e lo sviluppo di quella segnica che scaturisce dal rapporto col suono ha prodotto un cambiamento nel processo di traduzione. La percezione si trova spostata in uno spazio vuoto, rimane sospesa dentro un’incognita permanente fino a quando il segno le dà corpo, affermando qualcos’altro. La forma nella quale il senso veniva trasferito ora non può che essere astratta.

    Il suo lavoro ha molto a che fare con l’idea di composizione. Ci può descrivere l’importanza della musica nel suo percorso artistico?

    Nel mio lavoro ci sono in effetti analogie con la composizione musicale: anch’esso tende a creare un organismo fatto di più unità autonome che trovano modi di convivenza. Uno sguardo fugace può far assomigliare una mia opera a una partitura. Il lavoro si è sempre svolto, e si svolge, accanto alla musica, con la quale ho una consuetudine che risale alla mia infanzia. E’ il suono puro ad attrarmi, il suono dei corpi, quello che non riconosce soglie oltre le quali per un certo ascolto sociale diventerebbe rumore. Sono caratteri di cui trovo i tratti più attraenti nella musica contemporanea di ricerca, accademica e non, nella musica d’improvvisazione e in molte musiche etniche, specialmente quelle dell’Africa. C’è musica di Berio, ad esempio, o di Stockhausen, come gli involucri sonori che compongono “Zodiac”, che si è impressa con particolare intensità nell’ascolto dal quale sono nati alcuni dei miei ultimi lavori.
    Io credo che il suono abbia una prerogativa unica fra tutti i fenomeni sperimentabili sensorialmente: quella di poter simultaneamente abitare porzioni di presente e di passato. Racchiude in sé un processo temporale; è composto di elementi successivi nel tempo la cui percezione è, però, simultanea. Dinamiche percettive il cui codice è, appunto, in gran parte ignoto, che costituiscono però il lato misterioso del suono che ha indirizzato la mia passione verso la sua elezione a soggetto della mia ricerca.
    Mi ha fatto intravedere la possibilità di inoltrarmi in un lavoro mentale e fisico veramente esplorativo, diverso e incognito, ma che sentivo confacente all’irrequietezza del mio segno. Di immaginare altri mondi espressivi in cui avrei potuto spingerlo. Insomma, un lavoro d’interpretazione della percezione del suono, del transito verso la sua riformulazione segnica in una scrittura.

    Un aspetto che contraddistingue la sua pratica artistica è l’interesse diretto alla scrittura, scrittura che si traduce poi in rappresentazione simbolica. E’ così?

    Io vorrei poter rappresentare attraverso il linguaggio scritto. Riuscire a ritrarre attraverso le descrizioni minuziose raggiungibili con le parole. A volte mi sono perfino chiesta se una sorta di frustrazione/assenza per non aver scelto di calarmi in quel linguaggio avesse in qualche modo marcato il mio lavoro. Ma l’attingimento di una “scrittura” come simbolizzazione di affezioni è, comunque, il termine col quale credo di rendere, ieri come oggi, il senso più profondo della mia ricerca. Un po’ paradossalmente quella narratività che avrei voluto esprimere con le parole ha preso nel mio lavoro la via di traduzioni simboliche di segno, almeno nella strategia mimetica, diverso, in tensione verso la
    produzione di qualcosa di unitario e indiviso attraverso il massimo di condensazione espressiva. Fanno capo a una concezione del simbolo come immagine del pensiero nascosto collocata nell’istantaneo. Come un lampo che illumina e viene subito inghiottito dal buio. L’opposto della serie di momenti in progressione di una rappresentazione allegorica.
    L’alfabeto visivo/sonoro interamente soggettivo, enigmatico, assoggettabile a permutazioni infinite al quale sono pervenuta è il prodotto di quella tensione verso una sintesi. E’ composto di segni/significanti ai quali accordo sempre più libertà di muoversi verso il significato. Assecondando in fondo nient’altro che la loro natura, di muoversi sempre verso una “scrittura” in cui l’affezione originaria, qui colta dal suono, riesce ancora a vibrare.

    La ricerca che precede la composizione dell’opera è in qualche modo performativa?

    La ricerca è decisamente performativa. Si attua nell’atto dell’ascolto che coincide a sua volta con un’azione il cui raggio si estende fino all’impressione di un segno/significante sulla superficie. Un’azione che con il gesto tenta di cogliere come ricordi nel presente accensioni di segni precipitati nel passato. Il lavoro si sviluppa in presenza e in correlazione con una continua segmentazione del tempo, una sua incapsulazione seriale. La tensione del gesto rapisce il suono e ne traduce i caratteri fisici e la protensione in tocchi segnici sonori.

    Ci può parlare dei lavori che esporrà in occasione di ArtDate?

    La presentazione vuole privilegiare il rapporto diretto con la carta. Le opere non sono costrette in cornici, ma appese a un supporto a raggiera che ne permette la visione/lettura attraverso il loro voltarsi come pagine. Sono carte di diversa grammatura, di grandi e medie dimensioni; lavori realizzati a grafite e tecnica mista. Fanno parte della mia produzione più recente, quella che nasce, appunto, dal rapporto con il suono. In particolare, fanno parte di una serie intitolata “Un tempo”. La ricerca era iniziata con una scrittura che mi sembrava riuscire a incontrare ed elaborare su piccole superfici tutta la densità degli eventi musicali.. Successivamente ho dato corso a un processo di diluizione progressiva, con impiego di superfici aumentate, per cogliere una quantità più elevata di eventi e scrivere traduzioni i cui percorsi, facendo quasi vibrare le carte, si disegnavano ramificandosi in tutte le direzioni. Fino a rendere necessaria la grande dimensione (2,40×1,30): uno spazio che poteva accogliere tutti quei movimenti, rendere leggibile l’energia di cui sono vettori e l’intenzionalità che li dirige. Rappresentare, soprattutto, il confronto che si dispiega in un incessante corpo a corpo, ineludibile nel mio lavoro, con il tempo. Quel tempo che viene dato come percezione dal suono. Anzi, forse solo dal suono. Un tempo.

    Sappiamo che oltre ai lavori su carta ha realizzato anche un altro lavoro avvalendosi del supporto di Multimagine.
    Ci può fare qualche anticipazione?

    La sperimentazione in 3D che ho condotto con il supporto di Multimagine rappresenta il primo stadio di un work in progress. Si lega alla parte “compositiva” del mio lavoro. In particolare ad alcune modalità che sono proprie delle tecniche compositive e che concernono la sovrapposizione e la condotta delle parti. Ho ritenuto di utilizzare i lavori su piccolo formato in una rielaborazione nella quale le stesse tecniche, atte a governare progressioni di voci nello spazio in senso ineluttabilmente orizzontale, sono trasposte nel tempo per ritmare in una verticalità immobile la loro estrazione dal passato.

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